La fine della Signoria dei Trinci

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La Signoria dei Trinci su Foligno ebbe termine, dopo 134 anni, l'8 settembre 1439, con la cattura di Corrado III de' Trinci da parte del Cardinale Giovanni Maria Vitelleschi, legato del Papa. Corrado fu senza alcun dubbio il principale responsabile della rovinosa caduta della propria famiglia. Le innumerevoli atrocità e nefandezze, commesse a partire dal 1421 quando vendicò la morte dei fratelli con un bagno di sangue, rimasero per sempre legate al suo nome - "Corrado di infame memoria", si legge negli scritti di alcuni storici - e lo condussero a una fine tanto prevedibile quanto inevitabile. Va comunque dato credito a Corrado di aver posseduto una certa scaltrezza, rivelatasi in una consumata abilità nel tessere e coltivare amicizie e parentele di convenienza; diversamente, non avrebbe mantenuto il potere per ben diciotto anni. La sua fine, per certi versi tardiva, è legata alle vicende di tre altri personaggi di spicco dell'epoca: il Papa, Eugenio IV, l'Abate di Montecassino e Rettore di Spoleto, Pirro Tomacelli, e il legato del Papa, il Cardinale Giovanni Maria Vitelleschi.

Brevi note biografiche

Eugenio IV

A seguito della morte di Martino V, il 20 febbraio 1431, il Conclave votò il veneziano Gabriele Condulmer, eletto il 3 marzo e poi incoronato in San Pietro l'11 marzo 1431 con il nome di Eugenio IV.
Il nuovo Papa si trovò a dover affrontare subito due gravi problemi: lo strapotere a Roma della famiglia Colonna, conquistato grazie al suo predecessore, e il Concilio di Basilea, con cui fu in contrasto per quasi tutto il suo pontificato.
Eugenio riuscì in un primo momento a scacciare i Colonna da Roma, ma non potè impedire il loro ritorno, favorito da intrighi e tradimenti, neanche tre anni dopo. Nel giugno 1434 dovette fuggire, travestito da frate, e rifugiarsi a Firenze, presso la famiglia dei Medici. Nonostante la rivolta dei Colonna, sfociata nell'effimera "Repubblica Romana", fosse stata soffocata nel sangue da Giovanni Vitelleschi nell'ottobre dello stesso anno, l'esilio di Papa Eugenio durò fino al 1443.
Le trattative del Concilio, per l'unione con le chiese orientali di ogni luogo e rito, furono lunghe ed estenuanti. Quando il Papa, nel 1439, ritenendo che l'unione tra la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa fosse possibile, scelse Ferrara come sede (acconsentendo alle preferenze dei greci), i padri conciliari di Basilea lo scomunicarono come eretico, e gli opposero Amedeo VIII di Savoia, eletto Papa col nome di Felice V. Spostato il Concilio a Firenze, a causa di un'epidemia di peste, Eugenio raggiunse il suo scopo, unificando le Chiese (inclusa la Chiesa Armena), che non tennero in nessun conto l'elezione di Felice V.
Per il suo rientro in sicurezza a Roma mancava un ultimo tassello: egli si era schierato, per la successione al Regno di Napoli, dalla parte degli Angioini, contro gli Aragonesi; quando però Renato d'Angiò, accerchiato da Alfonso d'Aragona, abbandonò Napoli, egli non poté fare altro che prendere atto della situazione. Il Papa e il nuovo Re stipularono un trattato in cui riconoscevano le rispettive legittime posizioni, e si impegnavano ad essere alleati. Eugenio IV rientrò trionfalmente in Roma il 6 settembre 1443, dopo un esilio durato quasi dieci anni.
Senza risultati fu un suo tentativo per una crociata contro i Turchi, che erano avanzati in Ungheria e in Slavonia; solo l'Ungheria e la Polonia risposero al suo appello, e l'impresa fallì con la sfortunata battaglia di Varna (10 novembre 1444).
In tutto ciò, egli dovette occuparsi, con alterni successi, e anche una certa ambiguità, anche delle vicende dell'Umbria, come vedremo più avanti.
Eugenio IV morì in Roma nel 1447.

Pirro Tomacelli

Pirro di Roberto "il Tartaro" Tomacelli, Abate di Montecassino, il 28 febbraio 1434 venne nominato "Rettore della città e provincia del Ducato di Spoleto" e "Castellano della Rocca di Spoleto" da Eugenio IV, che si dichiarò convinto di averla così affidata in buone e sicure mani. Questa doppia nomina fu dovuta alle insistenze degli Spoletini. Il 2 ottobre 1434, a ulteriore manifestazione di compiacimento e di fiducia per la sua "prudenza, rettitudine e devozione alla Chiesa", gli conferiva la "facoltà di nominare Rettori ed ufficiali in sua vece nelle diverse terre e luoghi del Ducato con relativi salari, oneri, onori etc."
Sembra che Pirro Tomacelli non si sia recato subito a Spoleto, o comunque non vi abbia dimorato stabilmente; alcuni documenti del 1435 e 1436 lo danno infatti a Montecassino.
Ma subito dopo le cose mutarono, e volsero al peggio. Gettata la maschera, il Tomacelli si comportò più da padrone che da Rettore e, in aperto contrasto con l'abito talare, si abbandonò a ogni tipo di vizio e di libidine. E ne derivò una serie di sciagurati eventi, nella quale questo Pirro Tomacelli campeggiava come bieca figura di uomo ambizioso e violento, avido senza scrupoli di potere e di ricchezze, amorale ed immorale. Tommaso Martani, suo contemporaneo, si sfoga su di lui con ogni più violenta accusa, denunciandolo, non solo perfido e criminale, ma persino turpemente incestuoso con una sua sorella, convivente in Spoleto; il Minervio sprezzantemente lo definiva del tutto negato a qualsiasi virtù (Vir ab omni virtute alienus).
Divenne rapidamente odiato e disprezzato in città, ma fuori delle mura di Spoleto, egli aveva una corposa fazione ghibellina a sostenerlo. Alla morte della Regina Giovanna II di Napoli, che aveva lasciato come erede Renato d'Angiò, l'Abate prese a parteggiare per Alfonso d'Aragona, in opposizione al Papa, suscitando così le ire degli Spoletini.
Preparandosi a ogni evenienza, Pirro insediò dei soldati nella Rocca dell'Albornoz e la rifornì di vettovaglie, spogliando sia i campagnoli dei loro prodotti - grano, vino, orzo, mosto, paglia - che i cittadini delle merci che venivano introdotte dentro le mura di Spoleto. Egli contava sul difficile periodo che stava vivendo Papa Eugenio: il 29 maggio 1434 era scoppiata in Roma la rivoluzione, che l'aveva obbligato a fuggire a Firenze, dove si trattenne un intero decennio. La ribellione di Pirro divenne aperta nel settembre 1437, quando egli inalberö le sue insegne familiari sulla Rocca di Spoleto, cui dal 23 di quel mese gli Spoletini avevano posto l'assedio. Non ubbidendo quindi all'ordine del papa di rilasciare la Rocca, gli venne mandato contro, quale commissario, Amorotto Condulmer, conte di Massa e parente di Eugenio IV. Pirro ne approfittò per richiedere alla Camera Apostolica competenze arretrate che non gli erano state riconosciute, ritoccando la somma a proprio vantaggio. Convintosi di aver fatto una cattiva scelta, il 10 dicembre 1437 il Papa gli ordinò di riconsegnare la Rocca e di lasciare il Rettorato. Ma il Tomacelli, anzichè rassegnarsi, sobillato da Corrado Trinci, si dichiarò addirittura ribelle alla Chiesa.
L'inserimento del "magnifico Signore di Fuligno" nella disputa tra il Papa e l'Abate ribelle, dette inizio a un lungo e incerto periodo, fatto di assedi e battaglie, di saccheggi, stupri e rapimenti, che si concluse con la rovinosa caduta tanto del Tomacelli che di Corrado Trinci.

Giovanni Maria Vitelleschi

"Cardinale Condottiero", "Patriarca Alessandrino", "Cardinal Fiorentino": sono alcuni degli appellativi con cui è passato alla storia Giovanni Vitelleschi, nato tra il 1390 e il 1400 a Corneto, nei pressi di Viterbo, discendente degli stessi Vitelleschi che furono scacciati da Foligno da Trincia Trinci nel 1355. Istruito alla vita militare fin da giovane, nella compagnia di ventura del Tartaglia, ricevette anche un'educazione di tipo religioso al servizio di Papa Martino V.
Le sue carriere, quella militare e quella ecclesastica, progredirono di pari passo sotto il pontificato di Eugenio IV che, appena un mese dopo essere salito al Soglio Pontificio, lo nominò Vescovo di Macerata e Recanati (16 aprile 1431). Venne assoldato dal Papa per condurre le operazioni militari contro i Colonna quando la rivolta di questi, nel 1434, costrinse il Pontefice alla fuga travestito da frate domenicano. Vitelleschi soffocò la rivolta nel sangue, guadagnandosi una nomea di ferocia e crudeltà.
La ricompensa del Papa fu il titolo, anche se puramente formale[1], di Patriarca di Alessandria (21 febbraio 1435), e successivamente fu anche nominato Arcivescovo di Firenze (12 ottobre 1435). Pur conservando entrambe le cariche, non vi si dedicò praticamente mai, delegando tutte le sue funzioni ecclesiastiche ad altri prelati.
Nel 1436 alcuni baroni romani, ribelli al Papa, avevano occupato Terracina; Vitelleschi combattè presso Albano contro i Savelli, a Palestrina e Zagarolo contro i Colonna, e quindi ad Alatri e Anagni contro Antonio da Pontedera, che fece impiccare. Nel 1437 i baroni erano stati domati, e nello stesso anno iniziò la costruzione del Palazzo Vitelleschi a Tarquinia. Il 9 agosto venne nominato "prefetto delle armi pontificie" e Cardinale di San Lorenzo in Lucina. In quell'occasione rinunciò alla carica su Firenze, che passò a Ludovico Scarampi, cominciando comunque a essere chiamato "Cardinal Fiorentino". Nel 1438, durante la ribellione di Pirro Tomacelli a Spoleto, venne inviato dal Papa a combattere contro Corrado III Trinci, ma dovette desistere in quanto gli alleati "bracceschi" del Signore di Foligno erano intervenuti in suo soccorso con forze superiori alle sue.
L'anno successivo ricevette il doppio incarico di togliere prima il dominio su Foligno ai Trinci, e poi di liberare Spoleto dalla presenza dell'Abate ribelle. Il condottiero portò a termine entrambi gli incarichi, aspettandosi probabilmente qualche altro riconoscimento da parte del Papa. Questi invece, probabilmente sobillato dai Medici, cominciò a temere l'enorme potere acquisito da Vitelleschi sui territori da cui lui stesso era lontano da anni. Attraverso un vile stratagemma, Giovanni Vitelleschi venne catturato e imprigionato il 19 marzo 1440. Morì, per ordine di Papa Eugenio IV, il 2 aprile dello stesso anno.

Fonti diverse sembrano concordare sia sull'aspetto che sull'indole del Cardinale:
"Era il Vitelleschi persona grande e robusta, rubicondo di occhi e capelli neri."
"Sopravvenne poi Giov. Vitelleschi; tanto era il terrore di esso immesso ai Romani, che per tema non osavano di fissarlo in volto."
"...egli era un uomo imperioso e fiero, e inclinato piuttosto alla vita dispotica che alla religiosa."
Lo storico dei Trinci, Durante Dorio, ne descrive l'ingresso in Foligno:
"1439 - Fatto giorno il di 9 Settembre di Mercoledì, il Crd. Vitelleschi entrò dentro Foligno con 60 cavalli et altra gente, andando per tutte le strade principali della città, e per tal vittoria ne furono fatte pubbliche allegrezze, per compiacere ad esso Legato, che era orribile e spaventoso a tutti i popoli e gratissimo al Papa."

Descrizioni del genere si adattano poco alla figura di un Cardinale, di un uomo di Dio; ma se consideriamo la natura "onorifica" dei suoi titoli, intesa a garantirgli uno "stipendio" adeguato, otteniamo la straordinaria figura di un condottiero tra i più rilevanti della storia, sconfitto solo dal tradimento.

Cronologia degli eventi storici

1434

Il 28 febbraio, Papa Eugenio IV nominò Pirro di Roberto Tomacelli "Rettore della Città e Provincia del Ducato di Spoleto", nonché "Castellano della Rocca di Spoleto". Sulla base degli eventi successivi, è importante notare che fu l'insistenza degli Spoletini a convincere il Papa a concedere al Tomacelli questi incarichi, che andavano a sommarsi a quello di Abate di Montecassino. Alcuni storici affermano che Eugenio IV si era mostrato piuttosto riluttante all'idea di affidare alle stesse mani due punti politicamente e strategicamente così importanti come Montecassino e Spoleto.
Il 29 maggio, a seguito della sollevazione romana, il Papa fuggì da Roma, travestito da monaco, alla volta di Firenze dove venne accolto da Cosimo de' Medici.
Il 12 settembre il Castello di Ussita si arrese a Corrado III Trinci, che vi installò come Castellano Gentil Pandolfo, Signore di Camerino, suocero di suo figlio Ugone.

1435

L'11 febbraio morì a Napoli la Regina Giovanna II che, in un primo tempo, aveva designato Alfonso d'Aragona come suo successore ma, poco prima della morte, aveva cambiato idea indicando invece Renato d'Angiò. Gli inevitabili contrasti per la successione riacutizzarono il cronico disordine nel Regno di Napoli e non solo: Papa Eugenio IV, seguito dalla comunità di Montecassino, appoggiava l'Angioino, mentre il Tomacelli appoggiava apertamente l'Aragonese.

1436

Il 31 agosto Costanza "Tanza" di Niccolò Orsini, moglie di Corrado III, decise di separarsi dal marito e partì da Foligno alla volta di Roma.
L'8 novembre morì Costanza d'Aldobrandino Orsini, vedova di Ugolino III Trinci e madre di Corrado. Le cronache riportano che Corrado spese ottantasette fiorini e mezzo per mille libbre di cera.

1437

Questa la situazione in quel periodo storico:

  • Nel Regno di Napoli perdurava il conflitto tra Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona, che rivendicava i propri diritti sul trono.
  • Dalla parte dell'Angioino erano schierati il Papa, il cui esercito era guidato dal Cardinale Vitelleschi, e la Lega tra Fiorentini e Veneziani, guidata da Francesco Sforza.
  • L'Aragonese avva l'appoggio del Duca di Milano, Filippo Maria Visconti, che aveva inviato Francesco Piccinino, figlio di Niccolò, a combattere nella Marca, feudo dello Sforza.
  • Il condottiero Vitaliano del Friuli, al soldo dello Sforza, ne difendeva egregiamente il dominio grazie al suo poderoso esercito. I castelli da lui conquistati, specialmente quelli nei dintorni di Camerino, finirono però nelle mani di Corrado Trinci, cosa che indispettì non poco Francesco Sforza.
  • Tanto Corrado Trinci quanto Pirro Tomacelli parteggiavano per Alfonso d'Aragona, pur senza essere ancora intervenuti direttamente nella disputa.

Questo non poteva far piacere al Papa che inviò quindi come commissario un suo parente, Amorotto Condulmer, per ordinare all'Abate ribelle di riconsegnare la Rocca e dimettersi dal rettorato di Spoleto. Pirro non solo non obbedì, ma fece richiesta alla Camera Apostolica di presunti stipendi arretrati che diceva di non aver mai ricevuto. Allora il Papa, con pubblico editto, lo depose dal seggio badiale; il Tomacelli, per tutta risposta, ammainò lo stendardo papale e alzò la bandiera con la banda a scacchi, stemma della sua famiglia.

Il 21 settembre la città di Spoleto si sollevò contro Pirro e i suoi, costringendoli a ritirarsi nella Rocca che egli aveva già preparato per un'eventualità del genere, immagazzinando le salmerie e installando i propri soldati all'interno.

Il 23 settembre, dopo due giorni di aspri combattimenti, gli Spoletini posero l'assedio alla Rocca.
Degli ambasciatori si recarono dal Papa a Firenze, per ragguagliarlo dell'accaduto e riceverne aiuto. Questi approvò l'operato degli Spoletini e rinnovò l'ordine che Pirro lasciasse la reggenza del Ducato e riconsegnasse la Rocca. Gli ambasciatori andarono con quest'ordine dal Governatore di Perugia, che lo inoltrò all'Abate, il quale però non lo tenne in alcun conto.

Il Papa decise di forzare la mano, inviando a Spoleto il condottiero Baldovino da Tolentino con duecento cavalli e duecento fanti; Perugia inviò altri aiuti, che andarono a sommarsi alle milizie dello Sbardellato da Narni, già assoldato dal Comune di Spoleto con duecento fanti. Tutti si unirono quindi agli Spoletini per sostenere l'assedio alla Rocca.
Pirro, pur sollecitando gli alleati esterni alla propria liberazione, manteneva una posizione di relativa tranquillità: la Rocca era ben fornita, tanto di viveri quanto di armi; poteva sopportare l'assedio aspettando di vedere cosa sarebbe successo.

Il 10 dicembre Papa Eugenio sospese Pirro Tomacelli dalla carica di Abate di Montecassino, incaricando il Cardinale Vitelleschi di vegliare sull'Abbazia. Questo è significativo dell'atteggiamento del Papa, prudente secondo alcuni, pavido e ambiguo secondo altri.

1438

Nel febbraio del 1438 Francesco Sforza affrontò Vitaliano del Friuli, facendogli chiaramente capire che egli non aveva intenzione di stipendiare un esercito che combatteva a vantaggio di altri, nello specifico, a favore di Corrado Trinci. Vitaliano abbandonò quindi le insegne dello Sforza e si unì alle forze "braccesche"[2] di Francesco Piccinini.
Entrati entrambi in Umbria, in primavera, Piccinino e Vitaliano avevano già conquistato diversi castelli nei dintorni di Todi, ed erano accampati nei pressi di Acquasparta. Lì vennero raggiunti dall'ordine del Duca Filippo Maria di mettere in sicurezza i luoghi conquistati e spostarsi altrove a combattere il Papa.
Per Corrado Trinci era l'occasione giusta per liberare l'Abate. Prese contatto con Piccinino e Vitaliano, proponendo loro una ricca e facile preda, e dovette essere piuttosto convincente perchè essi aderirono al primo invito. All'esercito di Corrado si unirono volentieri i Nursini, che avevano dei conti in sospeso con Spoleto, e meno volentieri, perchè obbligati dal Signore di Foligno, Montefalchesi e Nocerini.
Ai primi di aprile mossero contro Spoleto Francesco Piccinino con cinquecento cavalli, Vitaliano del Friuli con altrettanti, Santino da Riva con cinquecento fanti, e tutto lo sforzo di Corrado, a cui si aggiunsero numerosi "villani" del contado di Spoleto di fede ghibellina; in tutto, oltre diecimila uomini.
Spoleto era difesa ancora dagli stessi soldati perugini, oltre a quelli di Baldovino e dello Sbardellato, per cui si dovettero distribuire le armi tra la popolazione, chiamata a combattere per la difesa della città.
Il 4 aprile 1438, le forze ghibelline assalirono la Porta Ponzianina, coadiuvati dagli assediati nella Rocca che usarono le bombarde contro la popolazione di Spoleto. Dopo un primo smarrimento però, gli Spoletini, guidati dai cavalieri di Baldovino, assalirono gli invasori con un impeto tale da farli fuggire, lasciando sul campo molti morti e feriti, e numerosi furono presi prigionieri. Quella che avrebbe dovuto essere una facile vittoria, si rivelò invece una cocente sconfitta.
Il Papa inviò ancora il Cardinale Condulmer perchè cercasse un accordo tra le parti, ma gli Spoletini posero come unica condizione la cacciata del Tomacelli, dichiarandosi disposti a scendere a patti su tutto il resto. L'Abate non si mostrò disposto a cedere, anche se le vettovaglie avevano iniziato a scarseggiare; giunse a Foligno una richiesta di soccorso e la notte del 3 di maggio Vitaliano del Friuli penetrò in Spoleto attraverso la Porta di San Matteo, aperta da un traditore all'interno della città. Gli Spoletini però si accorsero della manovra e accorsero prontissimi, mettendo in fuga i soldati di Vitaliano e intercettando le salmerie dirette alla Rocca. Pirrò riuscì comunque a inviare un messaggio, diretto a Corrado Trinci e Francesco Piccinino, in cui diceva che non avrebbe potuto sostenersi per più di tre giorni; che si affrettassero.
La notte dell’11 Maggio 1438 i Bracceschi entrarono in Spoleto, sorprendendo nel sonno i difensori. Al grido di "viva l' Abate" calarono dalla fortezza gli uomini di Pirro. Lo Sbardellato e i suoi fanti fuggirono senza combattere, come sembra fece pure Baldovino da Tolentino. "Tutti fuggirono come puttane, che non vi trassero una spada."
Fu strage e saccheggio: "... la città che, con due egregi fatti d’armi s’era strenuamente difesa, cadeva ora inerme nelle mani de’ suoi più acerbi nemici. Fu messa a sacco, insanguinata, svergognata nelle sue donne, profanata nei monasteri e nelle chiese."
"Non restò luogo dell'afflitta città, profano e sacro che fosse intatto da violenze e rapine. I prigionieri spoletini furono intorno a mille e, consegnati al furor dell' Abate, parte furon dati a morte, parte costretti a recuperare la libertà con molto oro. Tutti gli altri mandati a Foligno." Per quanto riguarda le ruberie, negli annali di Perugia si trova registrato che ne furono "asportate più di quattordicimila some e se ne fece mercato nei paesi vicini".
Pirro coi partigiani suoi erano così ritornati padroni della città; tanto padrone che nelle "Riformagioni" di quel tempo lo troviamo qualificato come "Signore".
Gran parte del bottino arrivò a Foligno, insieme con le chiavi della città di Spoleto, il vessillo comunale, il sigillo priorale, e perfino il martello della campana maggiore, che venne posto nella campana maggiore di San Feliciano. Il Governatore Apostolico di Perugia intimò che nessuno osasse comperare, o in altro modo ricevere, cose maltolte agli Spoletini, pena la forca.
I venturieri si trattennero a Spoleto otto giorni, passati i quali lasciarono la città nelle mani dell’Abate, che se ne fece il Signore, e si diressero verso Assisi. Qui furono raggiunti dall'ordine del Duca Visconti che li richiamava in Lombardia. Nel frattempo lo Sforza riprese Cerreto, che liberò dai Nursini facendone strage. Non riuscendo a conquistare la Rocca, prese Beroide e alcuni altri castelli e ville del contado spoletino.
Il 20 dicembre, lo zecchiere Piermatteo di Salvero della Compagnia degli Spavagli iniziò a battere moneta per ordine di Corrado. "E le monete furono questi : cioè fiorini d’oro per bolognini 44, e i bolognini oro soldi 2 e denari 6 e i piccioli uno a denaro, e belli quattrini."

1439

Nel mese di gennaio, a Foligno divenne obbligatorio l'uso delle nuove monete; l'ammenda per chi rifiutava il cambio, al prezzo stabilito, era di dieci fiorini.
Il 18 marzo 1439, Pirro Tomacelli, preoccupato dalla vicinanza dello Sforza che aveva occupato Cerreto e altri castelli dei dintorni, e che non aveva mai rinunciato al suo intento di occupare la Rocca, fece chiamare a consiglio alcuni degli Spoletini che erano fuggiti dalla città l'anno precedente e poi rientrati. Ne fece imprigionare tredici, che egli sospettava di tramare contro di lui, alcuni dei quali fece torturare pubblicamente. Pochi giorni prima aveva inviato degli ambasciatori dal Papa, per informarlo che avrebbe consegnarto la Rocca ai Commissari Pontifici. Proprio in questa data, Eugenio IV inviava a Pirro un suo Breve, tramite gli stessi ambasciatori, col quale, compiacendosi della sua "offerta" di consegnare la Rocca, gli dichiarava di ritenerlo del tutto scusato di avere abbassate o rimosse le insegne pontificie nella Rocca, e di riconoscere che ciò era avvenuto non per cattive intenzioni, stabilendo altresì che nessuno dovesse ritenerlo di ciò responsabile (absolvimus et etiam liberamus dicta intersigniorum amissione).
Nel mese di aprile, Eugenio IV confermava ufficialmente Pirro Tomacelli Rettore e Castellano di Spoleto. Inviò quindi a Spoleto l'Arcivescovo Nicola di Capua, per saldare i debiti con l'Abate con ottocento fiorini d'oro, e riceverne il giuramento di fedeltà. Poco dopo il Cardinale Condulmer, nipote del Papa, inviava al Tomacelli, "Governatore e Castellano di Spoleto", una lettera, d'ordine del Papa, con la quale riconosceva essergli dovuti ulteriori trecentoventicinque fiorini, impegnando la Camera Apostolica ad effettuare il pagamento.
E la città insorse nuovamente; Pirro e i suoi seguaci furono di nuovo costretti nella Rocca e, mandate al sicuro le famiglie, gli Spoletini si disposero a una lotta senza quartiere.
Il 7 di maggio venne inviato a Firenze come ambasciatore lo spoletino Tommaso Martani, il quale illustrò al Papa la reale situazione in città. Papa Eugenio capì di essere stato giocato dal Tomacelli, e assicurò che avrebbe liberato la città dalla sua presenza; designò immediatamente Bartolomeo Bandana come podestà di Spoleto, sospendendo Pirro Tomacelli dai suoi incarichi.
Tra la fine di maggio e i primi di giugno, il Cardinale Vitelleschi si trovava in Firenze; in un nuovo colloquio con il Papa, il Legato Pontificio assicurò che avrebbe scacciato Tomacelli, ma che prima avrebbe dovuto rendere inoffensivo Corrado Trinci. Tommaso Martani tornò a Spoleto in compagnia del Bandana, che il 5 di giugno si insediò come nuovo Podestà di Spoleto. I fuoriusciti spoletini, alla buona notizia, rientrarono in città disponendosi, come da accordi presi, a coadiuvare il Vitelleschi quando questi fosse stato pronto a marciare su Foligno.

  1. Anche se i titoli del Vitelleschi erano più di facciata che di sostanza, essi garantivano al condottiero importanti entrate finanziarie.
  2. Con questo termine si indicavano i condottieri che seguivano la scuola di Braccio da Montone. Egli era sostenitore della forza d'urto, dell'impeto delle cavallerie, la sua scuola si basava su attacchi continui delle squadre di cavalleria che, appoggiate dalla fanteria, venivano fatte ruotare nel corso della battaglia per mantenere costante sul nemico la pressione fino ad ottenere dei punti di rottura, verso i quali venivano poi lanciate le riserve fresche appositamente tenute da parte. L'altra scuola, sempre basata su un massiccio utilizzo della cavalleria, era quella di Muzio Attendolo Sforza, un approccio alla battaglia più ponderato, basato sull'utilizzo della grande massa di uomini e sulla possibilità di effettuare diverse manovre sul campo di battaglia.
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